Parlare di politica — figuriamoci scriverne — è come prendere un coltello dalla parte della lama: ti tagli, sempre. Ma, arrivato alla mia età, diciamo che ho smesso di preoccuparmi troppo di chi punta il dito, o peggio, lancia insulti. Fa parte del gioco.
È appena passato il 25 aprile, la Festa della Liberazione. In teoria, si celebra la fine dell’occupazione nazista in Italia. Sì, perché quella era davvero un’occupazione: dura, brutale, razzista. Ed è contro quella che i partigiani, dopo l’8 settembre del 44 (più o meno, vado a memoria), iniziarono a muoversi. Prima, beh… prima l’eroismo era ancora in ferie. È solo da quel momento che comincia davvero il racconto della Resistenza come la conosciamo oggi. O meglio, come la racconta la storia ufficiale.
Ecco, parlo del 25 aprile perché per me, fino a una decina d’anni fa, era una giornata speciale. Si festeggiava in famiglia, complice il ponte (beata scuola), ed era l’occasione per ricordare il passato. Un passato che, ve lo garantisco, sbatte forte contro quello che ho studiato a scuola. Per questo voglio raccontarvi un po’ quello che mi hanno detto i miei nonni.

I miei nonni vivevano a Milano durante la guerra. Gente semplice, ma sveglia. Mio nonno, Renato, con la sua famiglia aveva una piccola attività artigianale: cromavano cerchi delle bici. Già allora andavano forte, e i cerchi dovevano brillare come specchi. Facevano tutto in casa, artigianato vero. Una roba che, a sentirla oggi, fa quasi romanticismo industriale. Mia nonna, Nora (ma in famiglia la chiamavamo Norina), era romagnola di Ferrara — quindi sì, nel mio sangue scorre anche un po’ di piadina e Sangiovese.
I racconti che mi hanno fatto su quegli anni erano… Contrastanti, diciamo. Perché la storia, lo sappiamo, la scrivono i vincitori. E nel ’45 i vincitori erano i partigiani, sì, ma anche e soprattutto i comunisti e i socialisti di vecchia scuola, quelli con la bandiera rossa sventolata con orgoglio e senza sfumature. Però, nella Resistenza c’erano un po’ tutti: gente che voleva solo liberarsi dei nazisti, più che abbracciare un’ideologia.
Se dovessi raccontarvi per filo e per segno tutto quello che mi hanno detto i miei nonni, servirebbe una saga in tre stagioni. Però certe cose mi sono rimaste impresse. Come la paura — quella vera — per le camicie nere, che mio nonno descriveva come bande di violenti reclutati nei bassifondi. Gente che metteva paura più dei carabinieri, e forse pure più della polizia (che ancora non era quella di oggi, eh).
Eppure, nello stesso respiro, i miei nonni — gente semplice, con le mani consumate dal lavoro e lo sguardo segnato da decenni di storia — mi dicevano spesso: “Si stava meglio quando si stava peggio”. Una frase che da piccolo mi lasciava perplesso, quasi infastidito. Come potevano dire una cosa del genere parlando del fascismo, della guerra, della fame? E invece, col tempo, ho capito che quella frase racchiudeva una contraddizione vera, profonda, tutta italiana: la nostalgia dell’ordine, anche se imposto.
Durante il regime, dicevano, se facevi il bravo e non davi nell’occhio, in qualche modo “si stava”. Le aziende non venivano strangolate dalle tasse o dalla burocrazia, la criminalità sembrava sotto controllo, le case rimanevano aperte, i bambini giocavano per strada. Certo, bastava poco per finire male: un commento fuori posto, un gesto ambiguo, una denuncia anonima — ed eri sotto interrogatorio. Eppure, il senso di disciplina, di direzione unica, dava l’illusione di una vita “protetta”. Anche se quella protezione era sorretta dalla minaccia costante di uno Stato che ti spiava, ti giudicava, ti puniva. Un paradosso inquietante, ma reale.
Non voglio in alcun modo fare un’ode al fascismo, ci mancherebbe. Ma ho sempre trovato affascinante questa doppia faccia del racconto dei miei nonni: da un lato la paura tangibile, il terrore che serpeggiava in ogni parola detta a voce troppo alta; dall’altro, la memoria quasi affettuosa di una quotidianità ordinata, prevedibile, stabile — ma solo per chi accettava le regole senza discuterle. Oggi, se metti a confronto questi ricordi con le versioni scolastiche o i post indignati sui social, ti sembra di parlare di due realtà alternative. Come se la verità stesse da qualche parte nel mezzo, scomoda e sfuggente.
Poi c’era il capitolo della Liberazione. Ah, lì la voce dei miei nonni cambiava. Gli occhi si facevano lucidi, il tono si alzava appena, come per non perdere una sola sillaba del ricordo. Mi raccontavano dei partigiani con i foulard rossi al collo, dei camion americani che entravano nei paesi tra la folla in festa, delle stelle bianche dipinte sui carri armati. E i soldati — anche quelli neri, sì, me lo sottolineavano ogni volta, perché non li avevano mai visti prima — che regalavano cioccolato ai bambini. Era un sogno. Una liberazione vera, nel corpo e nell’anima. Una festa, una rinascita.
Ma subito dopo… ecco, lì il racconto cambiava tono. Perché finita la paura dei fascisti, cominciava quella dei comunisti. Non dei compagni di fabbrica o dei vicini di casa, ma di quelli che andavano in giro con liste di nomi, con conti da saldare. Le vendette sommarie, le rappresaglie, le sparizioni misteriose. La guerra era finita, sì, ma la pace non era ancora arrivata. Anzi, sembrava che si stesse solo aprendo un nuovo capitolo di tensione, di sospetti, di giustizia fatta col machete invece che con la bilancia.
E allora mi chiedo: chi aveva davvero ragione? I partigiani, certo, hanno avuto il coraggio di combattere. Di prendere le armi contro un nemico che era più forte, più armato, più organizzato. Hanno rischiato tutto — la vita, la libertà, le famiglie — per un ideale di giustizia e democrazia che, in quel momento, sembrava un sogno lontano. Hanno fatto cose incredibili, spesso con mezzi ridicoli, arrangiandosi con ciò che avevano, contando sulla solidarietà di chi credeva ancora in un futuro diverso. Hanno spinto i nazisti a ritirarsi, hanno inferto colpi decisivi al cuore di un regime che aveva annientato l’Italia morale prima ancora di quella politica.
Ma in mezzo, tra il bianco e il nero della Storia, c’erano anche loro: quelli come i miei nonni. Gente che non aveva né il coraggio né forse la lucidità per prendere posizione. Gente che voleva solo sopravvivere, proteggere i figli, tornare a casa ogni sera senza il terrore che qualcuno bussasse alla porta. Non erano eroi, ma non erano nemmeno vigliacchi. Erano italiani normali, stretti tra la retorica dei comizi e il rumore delle bombe. Guardavano avanti con una sola speranza: che tutto finisse presto. E credo che anche loro, in quel silenzio prudente, abbiano contribuito a salvare questo Paese, semplicemente tenendo in piedi le cose quando tutto crollava.
Io ho sempre festeggiato il 25 aprile. Sempre. L’ho fatto con convinzione, con partecipazione. Anche quest’anno ho messo fuori la bandiera tricolore, con orgoglio, con la sensazione di compiere un gesto che non era solo simbolico ma anche profondamente identitario. Perché sì, quella data rappresenta qualcosa di enorme: il punto di svolta, il momento in cui abbiamo detto “basta”. Eppure, da qualche anno, qualcosa è cambiato. Ho smesso di viverla davvero come una “festa nazionale”, nel senso pieno e condiviso del termine. Perché una parte politica — e non ho paura di dirlo: la sinistra italiana — se n’è appropriata. L’ha trasformata in una bandiera ideologica, in una specie di rifugio retorico che spesso serve più a mascherare la propria crisi d’identità che a onorare il passato.
E questo mi fa male. Mi ferisce, da cittadino e da uomo. Perché il 25 aprile non dovrebbe essere una celebrazione “contro”, ma “per”. Non solo contro i fascisti, ma per la libertà, per la dignità umana, per la pace. È la festa di chi ha detto no alla paura, sì alla vita. È la festa anche di chi non ha mai imbracciato un fucile, ma ha nascosto un ebreo in cantina, ha passato un panino a un fuggiasco, ha scelto il silenzio invece della delazione. È la festa di chi voleva solo vivere. Ma oggi, purtroppo, tanti giovani — e non è una loro colpa — la percepiscono come qualcosa di distante, di fazioso, come una celebrazione a metà, cucita su misura di chi ancora si identifica con una sinistra che ormai ha perso quasi tutto, tranne la retorica. E così, anche una ricorrenza nata per unire, rischia di dividere.
Ecco perché ho scritto tutto questo. Perché in fondo, il 25 aprile lo sento ancora mio. Ma mi piacerebbe che tornasse a essere di tutti.
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