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Arrivederci a due ruote

Bentornati amici, questo post nasce da una riflessione scaturita grazie a un amico che sta intraprendendo un nuovo percorso. Questo mi ha portato a parlare di un argomento che, lo ammetto, mi fa un certo effetto affrontare. Non avrei mai pensato di arrivare a questo punto, e soprattutto a questa età, a doverci riflettere su, accettarlo e infine dirlo ad alta voce.

Sto parlando di due ruote. E se avete letto il titolo dell’episodio, lo avrete già capito.

Io vado su due ruote da quando avevo 14 anni. E no, non parlo di biciclette, ma di motori. Quelli veri, a scoppio. Perché diciamocelo, con tutto questo proliferare di ibridi ed elettrici, un po’ di poesia si sta perdendo. E lo dico da Xoomer, non da boomer (sono della Generazione X, ci tengo a precisarlo!).

Tutto è iniziato nel lontano 1984. Eh già, ero un ragazzino e il mio primo mezzo è stato il mitico “Ciao Piaggio” bianco. Sembrava una bicicletta con il motore (anzi lo era!), ma per me era una moto da gran premio. Peccato che non fosse nemmeno mio, era di mio papà. Tutte le sere aspettavo con ansia che tornasse dal lavoro per poterci girare in cortile, imparando a guidarlo con la speranza di non schiantarmi.

Dopo il Ciao, è arrivato lo Zundapp 125, che ho tenuto pochissimo, cedendolo a favore di una Vespa T5 Primavera. Una follia? Forse. Ma all’epoca sembrava la cosa più giusta da fare. Era veloce, potente e, cosa non da poco, si poteva truccare. Smontare, rimontare, aggiungere pezzi per farla andare ancora più forte era parte del divertimento.

La mia prima vera moto, però, è stata una Cagiva Ala Blu 350 da enduro, monocilindrica, due tempi. Anche questa, diciamo, “ereditata” da mio padre. O meglio, lui ha finito per cederla più per sfinimento che per reale intenzione, visto che gliela rubavo ogni volta che potevo per scappare verso i campi fuori Milano.

E poi c’è stata la grande impresa: un viaggio fino allo Stelvio con il Ciao. Sì, avete capito bene. Da Milano fino in cima, con un motorino che andava a miscela e che a ogni tornante sembrava implorare pietà. Per arrivare lassù, tra pedalate e spintoni, abbiamo sudato come mai nella vita. Ma il problema vero non è stata la salita. La discesa è stata un incubo: freni a tamburo incandescenti e praticamente inutili, un continuo rischio di schiantarsi. Una gara di slittino più che una discesa controllata.

Ma oggi non voglio solo parlarvi delle mie avventure passate, altrimenti rischio di sembrare il vecchio nostalgico che racconta “ai miei tempi…”. Il punto è che questa è una puntata di addio, o meglio, di arrivederci alle due ruote.

Sto appendendo il casco al chiodo. L’età avanza, l’inverno si fa sempre più difficile da affrontare e recuperare il calore dopo un giro in moto diventa un’impresa. Negli anni ho sempre usato la moto per tutto, per andare al lavoro, per le gite del weekend. Ma ora il tempo a disposizione si riduce, complice anche una certa piccola creatura di quattro anni che assorbe ogni momento libero.

Il vero motivo, però, è che la mia macchina sta tirando gli ultimi. Ha 14 anni, 180.000 km e ogni riparazione diventa una mazzata. Qui a Milano, tra restrizioni e Area B, sono costretto a cambiarla. E no, il full electric non mi convince. Per cui, la scelta ricade su un’ibrida. Ma non posso permettermi due mezzi. E la moto, con la sua manutenzione costosa, deve cedere il passo.

Però, attenzione: non è un addio definitivo. Appena ne avrò l’occasione, tornerò in sella. Perché la moto non è solo un mezzo di trasporto, è una filosofia di vita. Mi ha accompagnato in momenti bellissimi e difficili, mi ha dato un senso di libertà che nient’altro ha saputo darmi. Molte delle idee migliori mi sono venute con il casco in testa, con il rumore del motore e il vento sulla visiera.

E qui torna il mio amico Imar, che sta riscoprendo tutto questo. Lo invidio, perché so esattamente cosa sta provando. Lui ha una BMW GS, e lo dico senza rancore: so che chi la guida rischia di finire in un club un po’ elitario. Ai motoraduni, incrociando GSisti, spesso ho ricevuto sguardi altezzosi invece del classico saluto a due dita. Ma conoscendo Imar, so che lui sarà diverso.

Lo invito a scoprire il vero spirito del motociclismo: le strade di montagna, le curve tra le colline, i paesini dimenticati, la trattoria che trovi dopo 500 km e che ti serve il miglior piatto di pasta della tua vita. Perché l’Italia in moto non è solo bella. È meravigliosa.

E quindi, che farò della mia amata Kawasaki ER-6N? Ancora non lo so. Per ora, fino a settembre, l’assicurazione è pagata, quindi la userò fino all’ultimo chilometro. Ma poi? Rottamarla? Venderla? Tenerla a prendere polvere in garage sperando in un ritorno?

Solo il tempo lo dirà. Ciò che so per certo è che mi si spezza il cuore anche solo a pensarci. La moto ha segnato momenti unici della mia vita, soprattutto quelli condivisi con mia moglie Rosi, con cui ho vissuto i viaggi più belli.

Quindi no, non è un addio. La strada chiama sempre, e prima o poi tornerò a rispondere. Un doppio flash a tutti voi motociclisti. Ci vediamo là fuori.


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